Un dizionario semiserio per far convivere le generazioni in azienda. Dalle email iper-cortesi dei Boomer alle abbreviazioni criptiche della Gen Z, ecco come scrivere messaggi che non sembrino passivo-aggressivi né troppo “cringe”.

Redazione Course Clear
22 dic 2025
Learning agility: Cruciale per il lifelong learning
Invece di una guerra fredda tra generazioni, oggi negli uffici si combatte una guerra linguistica.
Da un lato, chi considera “cordiali saluti” la chiusura più neutra possibile; dall’altro, chi valuta un “ciao!” con emoji come simbolo di empatia.
Non è solo una questione di stile: è la spia di un cambiamento più profondo nella comunicazione aziendale. I Boomer e la Gen Z — e in mezzo manager millennial che fanno da interpreti culturali — parlano lingue quasi opposte, pur volendo dire la stessa cosa: collaboriamo, ma rispettando i nostri codici di sicurezza emotiva.
Il risultato? Sketch comici e TikTok virali in cui la Gen Z decifra le email aziendali come se fossero messaggi in codice, mentre i Boomer si chiedono come si possa mandare un’email al capo contenente la parola “vibe”.
Un dizionario semiserio per sopravvivere alla torre di Babele aziendale
Le differenze linguistiche non nascono dal nulla: riflettono diverse concezioni del lavoro. I Boomer hanno appreso che la distanza (formale) è sinonimo di rispetto; la Gen Z, che la distanza è sinonimo di alienazione.
Ecco alcuni “trucchi di traduzione” per mantenere la professionalità senza sembrare un robot aziendale — e senza far collassare un ventenne su Slack.
1. Il tono “per tua opportuna informazione”
Come suona ai Boomer: Efficienza, precisione, chiarezza.
Come suona alla Gen Z: Freddo, impersonale, potenzialmente infastidito.
Traduzione suggerita: “Ti condivido questa info così siamo allineati ”.
L’aggiunta di un soggetto umano (“ti condivido”) e un microtono empatico riduce la distanza percepita.
2. L’emoji come segnale di cortesia
Boomer mode: Inappropriata, poco professionale.
Gen Z mode: Segnale di empatia e di assenza di tensione passivo-aggressiva.
Regola d’uso: usare emoji in contesti interni, quando già c’è confidenza. Sostituiscono l’intonazione che l’e-mail non può avere.
3. L’uso di slang (slay, no cap, bet)
Come suona ai Boomer: incomprensibile o eccessivamente informale.
Come suona alla Gen Z: codice identitario, come dire “parliamo lo stesso linguaggio”.
Soluzione: non tradurre lo slang, ma riconoscerlo con curiosità (“questo ‘slay’ significa approvazione, giusto?”). È un piccolo gesto di apertura culturale, non un tentativo goffo di imitazione.
4. I saluti finali
“Cordiali saluti” comunica distanza.
“Grazie mille” o “A presto!” apre invece al dialogo continuo.
Pro tip: la chiusura di un messaggio è una leva di clima. Sceglila come un abbigliamento: formale, ma non rigido.
5. Le riunioni post-email
Spesso il linguaggio sbagliato prolunga i fili di incomprensione.
Soluzione ibrida: sintetizzare l’e-mail con un recap in chat o con una mini-call. La Gen Z preferisce il ritmo, i Boomer la chiarezza: la sintesi è il terreno comune.
Educare alla traduzione, non al compromesso
Il futuro della comunicazione aziendale non sarà scritto da una generazione contro l’altra, ma da team capaci di “tradurre” significati.
I Boomer possono insegnare la struttura e la chiarezza; la Gen Z può insegnare spontaneità e autenticità relazionale. La parola chiave è adattabilità linguistica, una nuova forma di intelligenza emotiva nel mondo del lavoro.
L’azienda che favorisce la coesistenza linguistica migliora non solo i flussi comunicativi ma anche la fiducia interna. In fondo, ogni “per tua opportuna informazione” può trasformarsi in un “te lo dico così risolviamo insieme”.
Non è solo una questione di linguaggio: è una questione di cultura condivisa.
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